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Santi del 23 Novembre

Il mio Santo > I Santi di Novembre

*Beati 11 Cavalieri - Laici dell'Ordine Mercedario, Confessori (23 novembre)  

Questi 11 Beati cavalieri laici dell’Ordine Mercedario: Berengario Rosselli, Raimondo Rigald, Guglielmo de Rubeis, Guglielmo de Olesa, Guglielmo da Monteblanco, Giovanni de Exea, Perpignano de Cortsavino, Bernardo de Calderis, Mattia da Balaguer, Raimondo da Burgos e Michele de Lizama, furono insigni per la dottrina, la carità e la santità della vita.
Testimoniarono la fece cattolica contro i saraceni e prendendo la loro croce seguirono il Signore e con lo stesso Signore esultarono senza fine.
L’Ordine li festeggia il 23 novembre.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beati 11 Cavalieri, pregate per noi.

*Sant’Anfilochio di Iconio - Vescovo (23 novembre)

340/345 – 403
Etimologia: Anfilochio = proveniente da Filace, città dell'Epiro, dal greco
Emblema: Pallio
Martirologio Romano: A Konya in Licaonia, nell’odierna Turchia, Sant’Anfilochio, vescovo, che, compagno di eremo dei Santi Basilio e Gregorio Nazianzeno e loro collega nell’episcopato, fu insigne per santità e dottrina e sostenne molte prove per la fede cattolica.
La principale fonte a cui è possibile attingere informazioni circa Sant’Anfilochio è la sua corrispondenza con due cari amici, suo cugino San Gregorio Nazianzeno e San Basilio Magno.
Anfilochio nacque in Cappadocia tra il 340 ed il 345 ed in giovane età fu insegnante di retorica a Costantinopoli.
Incorso poi in difficoltà finanziarie, abbandono la capitale imperiale e si trasferì nei pressi di Nazianzo, al fine di condurre un’esistenza tranquilla e potersi prendere cura del padre anziano.
Nel 374 ricevette la nomina alla sede episcopale di Iconio, che accettò con non poca riluttanza, ben conscio di ciò che questo avrebbe comportato.
Suo padre si lamentò con Gregorio Nazianzeno, poiché gli sarebbero mancate le cure amorevoli del figlio, ma il santo gli rispose che non aveva avuto alcun ruolo nella nomina di Anfilochio ed anche lui in fondo avrebbe risentito della sua mancanza.
Basilio, probabile sostenitore della nomina, scrisse all’amico per incoraggiarlo ad essere guida piuttosto che succube degli altri.
Anfilochio consultava spesso Basilio, che proprio per lui scrissi il trattato sullo Spirito Santo, e ne pronunciò il panegerico al funerale.
Sempre infervorato dalla questione dell’ortodossia, nel 376 Anfilochio tenne un sinodo proprio ad Iconio, onde condannare l’eresia macedone che negava la divinità dello Spirito Santo. Fu inoltre presente quando essa fu definitivamente condannata nel Primo Concilio di Costantinopoli nel 381.
Esortò l’imperatore San Teodosio I a negare agli ariani la possibilità di riunirsi. Il sovrano inizialmente rifiutò, ritenendo troppo severa tale misura, ma il santo vescovo alla fine lo convinse a promulgare una legge che dichiarava illegali le assemblee pubbliche o private degli ariani.
Altrettanto rigorosamente, Anfilochio si oppose alle dottrine dei messaliani, una setta carismatica e manichea che considerava la preghiera quale unica vera essenza della religione.
La condanna di questa setta si ebbe durante un sinodo da lui presieduto nel 394 presso Sida, in Panfilia.
Il suo amico Gregorio lo descrisse araldo della verità e vescovo irreprensibile.
Suo padre testimoniò che diversi malati erano guariti per sua intercessione. Anfilochio morì nell’anno 403.
(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant’Anfilochio di Iconio, pregate per noi.

*Beato Bartolomeo Poggio - Protomartire della Patagonia (23 novembre)

San Martino Stella, Savona, 21 settembre 1768 – Patagonia, 7 agosto 1810
Di origine italiana, il Beato Bartolomeo Poggio, nacque il 21 settembre 1768 a San Martino Stella (Savona), da piccolo andò con i genitori in Argentina.
Entrò nell’Ordine Mercedario a Buenos Aires e fu ordinato sacerdote a Cordova il 26 maggio 1799.
L’anno dopo fu destinato come cappellano in Patagonia, in questo luogo e nel vicino porto di San Giuseppe, evangelizzò per 10 anni, dando esempio di vita apostolica e povera.
In quella regione gli indigeni frequentemente rapinavano tutto ciò che incontravano persino persone per poi scambiarle con viveri.
Durante una di queste incursioni gli indigeni incendiarono la cappella dove padre Poggio stava celebrando la messa, quindici persone furono uccise, altre furono fatte schiave, il Mercedario morì in ginocchio davanti all’altare con lo sguardo fisso verso la croce e la preghiera sulle labbra.
Era il 7 agosto del 1810 ed è considerato il protomartire della Patagonia. L’Ordine lo festeggia il 23 novembre.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Bartolomeo Poggio, pregate per noi.

*Santa Cecilia Yu So-sa - Vedova e Martire (23 novembre)

Scheda del gruppo a cui appartiene:
“Santi Martiri Coreani” (Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e 101 compagni)

Seoul, Corea del Sud, 1761 – Seoul, Corea del Sud, 23 novembre 1839
Martirologio Romano: A Seul in Corea, Santa Cecilia Yu So-sa, martire, che, vedova, privata dei beni e arrestata a causa della sua fede, fu sottoposta per dodici volte a interrogatorio e percossa fino a spirare, quasi ottuagenaria, in carcere.
Il Concilio Vaticano II, lungi dall’aver abolito il culto dei Santi, ha piuttosto sottolineato la chiamata universale alla santità, questa grande realtà di vita improntata allo stile evangelico. Negli ultimi decenni questa riscoperta dimensione di imitazione di Cristo a cui sarebbero chiamati tutti i cristiani di ogni condizione, ha portato al riconoscimento tramite numerose beatificazioni e canonizzazioni anche di numerosi fedeli laici, mentre per lunghi secoli è ben
noto come gli unici Santi privi di abiti religiosi fossero stati quasi esclusivamente i sovrani di varie dinastie eurepee ed alcuni martiri dei primi secoli.
La santa oggi festeggiata è appunto una laica, vissuta in Core a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Purtroppo, come già per i primi martiri, è assai difficile reperire numerose notizie sul suo conto, in quanto pur costituendo essi la più importante schiera di santi, i cristiani hanno forse sempre ritenuto inutile mandare molti dettagli circa la loro esistenza terrena, quanto piuttosto porre in dovuto risalto l’estrema testimonianza della fede cristiana sino all’effusione del loro sangue.
Cecilia Yu So-sa nacque a Seoul, odierna capitale della Corea del Sud, nel 1761. Donna sposata, suoi figli furono i Santi Paolo Chong Hasang e Jung Hye.
Rimasta poi vedova, fu privata di tutti i suoi averi ed incarcerata a causa della sua fede cristiana. Per ben dodici volte venne portata in giudizio ed altrettante fu sottoposta alla fustigazione. Morì infine nel carcere di Bo-jeong il 23 novembre, quasi ottuagenaria.
Cecilia fu beatificata il 5 luglio 1925 ed infine canonizzata da Papa Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984 con altri 102 martiri che avevano irrorato con il loro sangue la sua patria coreana.
Il gruppo, noto con il nome “Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e compagni”, è festeggiato comunemente dal calendario liturgico latino al 20 settembre.
(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Cecilia Yu So-sa, pregate per noi.

*San Clemente di Metz - Vescovo (23 novembre)  

Martirologio Romano: A Metz nella Gallia belgica, ora in Francia, commemorazione di San Clemente, ritenuto primo vescovo di questa città.
Vissuto nella seconda metà del sec. III o nella prima del IV, morì in data ignota; la sua festa fu fissata il 23 novembre, forse per una identificazione con san Clemente I papa, commemorato in quel giorno. Ebbe culto locale assai diffuso.
Le notizie storiche sulla vita di Clemente sono state sopraffatte dalla leggenda. A partire dal sec. VIII si volle nobilitare la Chiesa di Metz attribuendole un'origine apostolica e Clemente, indicato come suo fondatore, fu presentato come un discepolo di San Pietro.
Inviato a Metz per evangelizzare la regione, fondò un oratorio sul luogo d'un anfiteatro romano e fu considerato come primo vescovo; così in un catalogo episcopale in versi del vescovo
Angilramo (776), a cui attinse Paolo Diacono nel Liber de episcopis Mettensibus (783).
Alla narrazione di Paolo si ispirarono, nei secc. X-XIII, ben cinque biografie del Santo, ricche di elementi fantasiosi e interessanti il folklore, di cui la critica, specie benedettina, ha fatto giustizia (Clemente avrebbe liberato Metz da un mostruoso serpente e, in genere, dai rettili annidati nell'anfiteatro; avrebbe fondato chiese e convertito sovrani).
Sul luogo dell'anfiteatro, sufficientemente noto agli archeologi, esistevano nel Medioevo la chiesa di St-Pierre-aux-Arènes e, nei pressi, quella di San Felice martire, più tardi dedicata a Clemente; ma l'identificazione dell'oratorio edificato dal santo con una di queste chiese e, in particolare, con la chiesa eponima (che non poté essere intitolata al suo nome prima del VI-VII sec.) non è suffragata da prove.
Il monastero di San Clemente passò nel 946 ai Benedettini guidati da san Cadroe (da Vaulsort): nell'abbazia i monaci irlandesi furono i più numerosi per tutto il Medioevo.
Nel 1090 le reliquie del santo furono traslate (il 19 marzo o il 2 maggio) dal vescovo Heriman nella cattedrale di Metz; al tempo della Rivoluzione esse furono disperse con la scomparsa chiesa, che nel 1630 era stata assegnata alla congregazione di St-Vanne e St-Hydulphe.
Protettore di molte parrocchie locali, Clemente dà il titolo all'attuale collegio dei Gesuiti.
(Autore: Gérard Mathon - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Clemente di Metz, pregate per noi.

*San Clemente I Romano – 4° Papa e Martire (23 novembre)

(Papa dall'88 al 97)
Clemente, quarto vescovo di Roma dopo Pietro, Lino e Anacleto, è ricordato nel Canone Romano.
La lettera da lui indirizzata ai Corinzi per ristabilire la concordia degli animi, appare come uno dei più antichi documenti dell'esercizio del primato.
Lo scritto testimonia il Canone dei libri ispirati e dà preziose notizie sulla liturgia e sulla gerarchia ecclesiastica.
Accenna anche alla gloriosa morte degli apostoli Pietro e Paolo e dei protomartiri romani nella persecuzione di Nerone. (Mess. Rom.)
Etimologia: Clemente = indulgente, generoso, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: San Clemente I, Papa e Martire, che resse la Chiesa di Roma per terzo dopo San Pietro Apostolo e scrisse ai Corinzi una celebre Lettera per rinsaldare la pace e la concordia tra loro.
In questo giorno si commemora la deposizione del suo corpo a Roma.
Risuonava ancora al suo orecchio la predicazione degli Apostoli.
Così nel II secolo Sant’Ireneo parla di Clemente, terzo successore di Pietro dopo Lino e Anacleto, e forse in gioventù collaboratore di Paolo.
Ma di lui una sola cosa è certa: la profonda conoscenza (rivelata negli scritti) della Scrittura e anche dei testi ebraici e non canonici.
Si ritiene perciò che sia venuto al cristianesimo dall’ebraismo.
Sappiamo che il suo pontificato dura nove anni, sotto gli imperatori Domiziano, Nerva e Traiano.
Ma il suo posto è grande nella vita della Chiesa, che lo venera come uno dei “Padri apostolici”,
per la lettera alla comunità di Corinto, dove i pastori sono stati destituiti da giovani cristiani turbolenti.
Clemente non interviene finché dura la persecuzione ordinata da Domiziano nell’Impero.
Tornata la pace, al tempo di Nerva, eccolo inviare a Corinto una lettera scritta da lui ma presentata come voce della Chiesa di Roma, cosciente della sua autorità e responsabilità.
Essa ricorda l’origine divina dell’autorità ecclesiastica e le norme per la successione apostolica; condanna l’espulsione dei presbiteri di Corinto e disegna un’immagine dell’intera comunità cristiana come modello di fraternità.
Infine, sebbene Clemente scriva dopo la persecuzione, rammenta con serenità il dovere dell’obbedienza ai prìncipi nelle cose terrene.
La lettera, detta poi Prima Clementis, afferma dopo i testi degli Apostoli l’autorità dei vescovi sui fedeli e il primato della Chiesa di Roma sulle altre.
Sarà infatti definita “Epifania (cioè manifestazione) del primato romano”.
Un documento che si diffonde in tutta la cristianità antica, e che resta valido in ogni tempo.
La voce di Clemente parla "con una gravità saggia, paterna, cosciente delle proprie
responsabilità, ferma nelle esigenze e al tempo stesso indulgente nei suoi rimproveri" (G. Lebreton).
Ancora 70 anni dopo, a Corinto, il documento viene letto pubblicamente nelle riunioni eucaristiche domenicali, insieme alle Scritture.
Poco si sa degli ultimi anni di Clemente. Secondo una tradizione del IV secolo, sarebbe stato affogato con un’ancora al collo in Crimea, suo luogo d’esilio, per ordine di Nerva.
Ma gli Atti relativi sono giudicati leggendari.
D’altra parte lo storico Eusebio di Cesarea e San Girolamo concordemente dicono che Clemente muore nel 101, e non parlano affatto di esilio e di martirio.
Nel IV secolo gli viene dedicata sul colle Celio a Roma una basilica, che sarà poi devastata da un incendio nel 1084.
E sui suoi resti, dopo il 1100, sorgerà la basilica nuova a tre navate, ampiamente restaurata poi nel secolo XVIII.
Sotto la sua abside gli scavi ottocenteschi hanno fatto scoprire parti della basilica originale, con dipinti murali anteriori al 1084.
In ogni tempo la Chiesa continua a venerarlo, col nome di Clemente Romano.
(Autore: Domenico Agasso - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Clemente I Romano, pregate per noi.

*San Colombano - Abate (23 novembre)

Irlanda c. 525-530 - Bobbio, Piacenza, 23 novembre 615
Colombano è uno dei rappresentanti del mondo monastico che danno origine a quella 'peregrinatio pro Domino', che costituì uno dei fattori dell'evangelizzazione e del rinnovamento culturale dell'Europa. Dall'Irlanda passò (c. 590) in Francia, Svizzera e Italia Settentrionale, creando e organizzando comunità ecclesiastiche e fondando vari monasteri, alcuni dei quali, per esempio Luxeuil e Bobbio, celebri per gli omonimi libri liturgici. La regola monastica che codifica la sua spiritualità è improntata a grande rigore e intende associare i monaci al sacrificio di Cristo. La sua prassi monastica ha influito sulla nuova disciplina penitenziale dell'Occidente. (Mess. Rom.)
Patronato: Motociclisti
Etimologia: Colombano = dolce, delicato
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: San Colombano, abate, che di origine irlandese, fattosi pellegrino per Cristo per istruire nel Vangelo le genti della Francia, fondò insieme a molti altri monasteri quello di Luxeuil, che egli stesso governò in una stretta osservanza della regola; costretto all’esilio, attraversò le Alpi e fondò in Emilia il monastero di Bobbio, celebre per la disciplina e gli studi, dove, benemerito della Chiesa, morì in pace e il suo corpo fu deposto in questo giorno.
Il santo abate Colombano è l’irlandese più noto del primo Medioevo: con buona ragione egli può essere chiamato un santo «europeo», perché come monaco, missionario e scrittore ha lavorato in vari Paesi dell’Europa occidentale. Insieme agli irlandesi del suo tempo, egli era consapevole dell’unità culturale dell’Europa.
In una sua lettera, scritta intorno all’anno 600 e indirizzata a Papa Gregorio Magno, si trova per la prima volta l’espressione «totius Europae, di tutta l’Europa», con riferimento alla presenza della Chiesa nel Continente (cfr Epistula I,1).
Colombano era nato intorno all’anno 543 nella provincia di Leinster, nel sud-est dell’Irlanda.
Educato nella propria casa da ottimi maestri che lo avviarono allo studio delle arti liberali, si affidò poi alla guida dell’abate Sinell della comunità di Cluain-Inis, nell’Irlanda settentrionale, ove poté approfondire lo studio delle Sacre Scritture. All’età di circa vent’anni entrò nel
monastero di Bangor nel nord- est dell’isola, ove era abate Comgall, un monaco ben noto per la sua virtù e il suo rigore ascetico. In piena sintonia col suo abate, Colombano praticò con zelo la severa disciplina del monastero, conducendo una vita di preghiera, di ascesi e di studio. Lì fu anche ordinato sacerdote. La vita a Bangor e l’esempio dell’abate influirono sulla concezione del monachesimo che Colombano maturò col tempo e diffuse poi nel corso della sua vita.
All’età di circa cinquant’anni, seguendo l’ideale ascetico tipicamente irlandese della «peregrinatio pro Christo», del farsi cioè pellegrino per Cristo, Colombano lasciò l’isola per intraprendere con dodici compagni un’opera missionaria sul continente europeo. Dobbiamo infatti tener presente che la migrazione di popoli dal nord e dall’est aveva fatto ricadere nel paganesimo intere Regioni già cristianizzate. Intorno all’anno 590 questo piccolo drappello di missionari approdò sulla costa bretone. Accolti con benevolenza dal re dei Franchi d’Austrasia (l’attuale Francia), chiesero solo un pezzo di terra incolta. Ottennero l’antica fortezza romana di Anne-gray, tutta diroccata ed abbandonata, ormai coperta dalla foresta. Abituati ad una vita di estrema rinuncia, i monaci riuscirono entro pochi mesi a costruire sulle rovine il primo eremo. Così, la loro rievangelizzazione iniziò a svolgersi innanzitutto mediante la testimonianza della vita. Con la nuova coltivazione della terra cominciarono anche una nuova coltivazione delle anime. La fama di quei religiosi stranieri che, vivendo di preghiera e in grande austerità, costruivano case e dissodavano la terra, si diffuse celermente attraendo pellegrini e penitenti. Soprattutto molti giovani chiedevano di essere accolti nella comunità monastica per vivere, come loro, questa vita esemplare che rinnovava la coltura della terra e delle anime. Ben presto si rese necessaria la fondazione di un secondo monastero. Fu edificato a pochi chilometri di distanza, sulle rovine di un’antica città termale, Luxeuil. Il monastero sarebbe poi diventato il centro dell’irradiazione monastica e missionaria di tradizione irlandese sul continente europeo. Un terzo monastero fu eretto a Fontaine, un’ora di cammino più a nord.
A Luxeuil Colombano visse per quasi vent’anni. Qui il santo scrisse per i suoi seguaci la Regula monachorum per un certo tempo più diffusa in Europa di quella di san Benedetto disegnando l’immagine ideale del monaco. È l’unica antica regola monastica irlandese che oggi possediamo. Come integrazione egli elaborò la Regula coenobialis, una sorta di codice penale per le infrazioni dei monaci, con punizioni piuttosto sorprendenti per la sensibilità moderna, spiegabili soltanto con la mentalità del tempo e dell’ambiente. Con un’altra opera famosa intitolata De poenitentiarum misura taxanda, scritta pure a Luxeuil, Colombano introdusse nel continente la confessione e la penitenza private e reiterate; fu detta penitenza «tariffata» per la proporzione stabilita tra gravità del peccato e tipo di penitenza imposta dal confessore. Queste novità destarono il sospetto dei vescovi della regione, un sospetto che si tramutò in ostilità quando Colombano ebbe il coraggio di rimproverarli apertamente per i costumi di alcuni di loro. Occasione per il manifestarsi del contrasto fu la disputa circa la data della Pasqua: l’Irlanda seguiva infatti la tradizione orientale in contrasto con la tradizione romana. Il monaco irlandese fu convocato nel 603 a Châlon-sur-Saôn per rendere conto davanti a un sinodo delle sue
consuetudini relative alla penitenza e alla Pasqua. Invece di presentarsi al sinodo, egli mandò una lettera in cui minimizzava la questione invitando i Padri sinodali a discutere non solo del problema della data della Pasqua, problema piccolo secondo lui, «ma anche di tutte le necessarie normative canoniche che da molti cosa più grave sono disattese» (cfr Epistula II,1).
Contemporaneamente scrisse a Papa Bonifacio IV come qualche anno prima già si era rivolto a Papa Gregorio Magno (cfr Epistula I) per difendere la tradizione irlandese (cfr Epistula III).
Intransigente come era in ogni questione morale, Colombano entrò poi in conflitto anche con la Casa reale, perché aveva rimproverato aspramente il re Teodorico per le sue relazioni adulterine. Ne nacque una rete di intrighi e manovre a livello personale, religioso e politico che, nell’anno 610, si tradusse in un decreto di espulsione da Luxeuil di Colombano e di tutti i monaci di origine irlandese, che furono condannati ad un definitivo esilio. Furono scortati fino al mare e imbarcati a spese della corte verso l’Irlanda. Ma la nave si incagliò a poca distanza dalla spiaggia e il capitano, vedendo in ciò un segno del cielo, rinunciò all’impresa e, per paura di essere maledetto da Dio, riportò i ed entusiasmo ai coetanei. monaci sulla terra ferma. Essi, invece di tornare a Luxeuil, decisero di cominciare una nuova opera di evangelizzazione. Si imbarcarono sul Reno e risalirono il fiume. Dopo una prima tappa a Tuggen presso il lago di Zurigo, andarono nella regione di Bregenz presso il lago di Costanza per evangelizzare gli Alemanni.
Poco dopo però Colombano, a causa di vicende politiche poco favorevoli alla sua opera, decise di attraversare le Alpi con la maggior parte dei suoi discepoli. Rimase solo un monaco di nome Gallus; dal suo eremo si sarebbe poi sviluppata la famosa abbazia di Sankt Gallen, in Svizzera. Giunto in Italia, Colombano trovò un’accoglienza benevola presso la corte reale longobarda, ma dovette affrontare subito difficoltà notevoli: la vita della Chiesa era lacerata dall’eresia ariana ancora prevalente tra i longobardi e da uno scisma che aveva staccato la maggior parte delle Chiese dell’Italia settentrionale dalla comunione col Vescovo di Roma. Colombano si inserì con autorevolezza in questo contesto, scrivendo un libello contro l’arianesimo e una lettera a Bonifacio IV per convincerlo a fare alcuni passi decisi in vista di un ristabilimento dell’unità (cfr Epistula V). Quando il re dei longobardi, nel 612 o 613, gli assegnò un terreno a Bobbio, nella valle del Trebbia, Colombano fondò un nuovo monastero che sarebbe poi diventato un centro di cultura paragonabile a quello famoso di Montecassino. Qui giunse al termine dei suoi giorni: morì il 23 novembre 615 e in tale data è commemorato nel rito romano fino ad oggi.
Il messaggio di San Colombano si concentra in un fermo richiamo alla conversione e al distacco dai beni terreni in vista dell’eredità eterna. Con la sua vita ascetica e il suo comportamento senza compromessi di fronte alla corruzione dei potenti, egli evoca la figura severa di san Giovanni Battista. La sua austerità, tuttavia, non è mai fine a se stessa, ma è solo il mezzo per aprirsi liberamente all’amore di Dio e corrispondere con tutto l’essere ai doni da lui ricevuti,
ricostruendo così in sé l’immagine di Dio e al tempo stesso dissodando la terra e rinnovando la società umana. Cito dalle sue Instructiones: «Se l’uomo userà rettamente di quelle facoltà che Dio ha concesso alla sua anima allora sarà simile a Dio. Ricordiamoci che gli dobbiamo restituire tutti quei doni che egli ha depositato in noi quando eravamo nella condizione originaria. Ce ne ha insegnato il modo con i suoi comandamenti. Il primo di essi è quello di amare il Signore con tutto il cuore, perché egli per primo ci ha amato, fin dall’inizio dei tempi, prima ancora che noi venissimo alla luce di questo mondo» (cfr Instr. XI). Queste parole, il santo irlandese le incarnò realmente nella propria vita. Uomo di grande cultura scrisse anche poesie in latino e un libro di grammatica si rivelò ricco di doni di grazia. Fu un instancabile costruttore di monasteri come anche intransigente predicatore penitenziale, spendendo ogni sua energia per alimentare le radici cristiane dell’Europa che stava nascendo. Con la sua energia spirituale, con la sua fede, con il suo amore per Dio e per il prossimo divenne realmente uno dei Padri dell’Europa: egli mostra anche oggi a noi dove stanno le radici dalle quali può rinascere questa nostra Europa.
(Autore: Papa Benedetto XVI (udienza generale 11.06.2008)

Giaculatoria - San Colombano, pregate per noi.

*Beata Enrichetta Alfieri - Religiosa (23 novembre)

Borgovercelli, Vercelli, 23 febbraio 1891 - Milano, 23 novembre 1951
È conosciuta come l’«angelo di San Vittore» per il servizio svolto per tanti anni nel grande carcere milanese. È l’accompagnamento ai detenuti anche in frangenti molto difficili l’ambito in cui suor Enrichetta Alfieri ha vissuto in maniera eroica le virtù cristiane al punto da essere trovata di degna del titolo di beata.
Maria Angela Domenica Alfieri nasce a Borgo Vercelli nel 1891; a vent’anni entra nelle Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret. Dopo un primo servizio in un asilo infantile a Vercelli – e aver superato prodigiosamente una grave malattia – nel 1923 viene inviata a far
parte del gruppo di suore che assistono le detenute di San Vittore. E qui diventa presto un punto di riferimento per tutti.
Anche negli anni bui dell’occupazione nazista, quando esercita il suo ministero di conforto accanto agli ebrei arrestati e ai prigionieri politici. Durante la fase diocesana del processo di beatificazione anche un non credente come Indro Montanelli – finito a San Vittore nel 1944 per la sua attività antifascista – ha testimoniato sull’eccezionalità della testimonianza cristiana di suor Enrichetta, definendola «l’epicentro di ogni speranza» di quei giorni difficili.
La religiosa non si limitava a confortare: rischiò in prima persona per evitare ad altri la deportazione.
Un giorno venne scoperta col bigliettino di una donna ebrea che dal carcere scriveva ai parenti invitandoli a mettersi in salvo; così anche la suora finì dietro le sbarre. E scampò la fucilazione solo per l’intervento del cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, che scrisse personalmente a Mussolini per invocare clemenza. Allontanata dal carcere vi ritornò subito, a guerra finita, rimanendovi fino al 1951, l’anno della morte.
Al San Vittore ci finisce per caso. E non per espiare. Suor Enrichetta Alfieri nasce a Borgo Vercelli il 23 febbraio 1891, in una famiglia semplice, che la cresce a fede e lavoro: dopo le elementari subito a darsi da fare, in casa e nei campi, imparando anche il ricamo negli scampoli di tempo. Deve aspettare i 20 anni per entrare in convento, perchè i genitori glielo chiedono: così la sua vocazione si irrobustisce e diventa ancor più solida. Tra le figlie della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, a Vercelli, sembra subito trovare il suo posto; qui si accorgono delle sue spiccate attitudini educative e la fanno studiare.
Nel 1917 inizia a lavorare come maestra in un asilo a Vercelli, ma pochi mesi dopo si deve fermare per motivi di salute. I medici cincischiano un bel po’ prima di diagnosticare la sua malattia, che solo nel 1920 ha un nome preciso: spondilite degenerativa, ossia la “malattia di Pott”, una tubercolosi vertebrale, che la immobilizza in un letto tra dolori atroci e con una prognosi infausta.
Nel 1922 i Superiori decidono per lei un pellegrinaggio a Lourdes alla ricerca di un miracolo, ma ne torna nelle medesime condizioni, anzi affaticata ed aggravata dai disagi del viaggio. Ha già imparato a soffrire “con dignità, con amore, con dolcezza e con fortezza” e alla Grotta le viene donata una maggior serenità per affrontare il dolore. In più, si porta a casa da Lourdes una bottiglietta d’acqua, che sorseggia quando il dolore si fa proprio insopportabile.
A gennaio 1923 viene dichiarata spacciata dai medici e il successivo 5 febbraio riceve l’Unzione degli Infermi. Mentre si aspetta da un momento all’altro il suo trapasso, il 25 febbraio si alza dal letto completamente ristabilita, dopo aver sorseggiato per l’ennesima volta un goccio dell’acqua di Lourdes. Di fronte alla guarigione improvvisa, e per i medici anche inspiegabile, tutta Vercelli è in fermento, al punto che i Superiori pensano bene ad un trasferimento di convento dell’ex malata, proprio per sottrarla a tutto il clamore che il presunto miracolo le ha suscitato intorno.
Alcuni mesi dopo è così destinata al carcere milanese di San Vittore, a dispetto del suo diploma di maestra e della sua predisposizione all’insegnamento. Per lei si prospetta una parentesi tra lunghi corridoi, strette finestre, alte sbarre, tanta rabbia e infinito dolore: vi resterà per quasi 30 anni, cioè fino alla morte. “La vocazione non mi fa santa, ma mi impone il dovere di lavorare per diventarlo...” e tanto, per non perdere tempo, investe subito le sue doti, di mente e di cuore, nel restituire dignità, speranza e redenzione alle detenute, abbruttite non soltanto dal vizio o
dal delitto, ma anche dalle disumane condizioni di detenzione.
Luogo preferito per ricevere le loro confidenze e per tentare un colloquio spirituale è la grotta di Lourdes, realizzata nel cortiletto del carcere, dove le raduna volentieri e dove avvengono miracoli di conversione.
Con la guerra il carcere si riempie di prigionieri politici ed ebrei e la carità di Suor Enrichetta di dilata allora ancor di più, per procurare contatti, favorire incontri, trasmettere informazioni. Indro Montanelli e Mike Buongiorno sono testimoni diretti (in quanto detenuti anch’essi al San Vittore) di quanto questa suorina riesca a fare per sventare perquisizioni ed arresti, salvare ebrei dalla deportazione, mettere in salvo partigiani. Naturalmente a suo rischio e pericolo, come quando i tedeschi, intercettando uno dei suoi tanti messaggi fatti uscire dal carcere, le mettono le mani addosso, rinchiudendola in una cella del medesimo carcere. Rischia la fucilazione o la deportazione in Germania e solo il tempestivo intervento del cardinal Schuster riesce a scongiurare entrambe, facendole commutare nella pena del confino, che la suora dovrà scontare in un manicomio a Grumello del Monte.
Con la liberazione di Milano può rientrare a San Vittore, ad assistere quelli che erano i nemici di ieri, che hanno preso in cella il posto degli antifascisti. Per tutti, di qualsiasi colore, è “l’angelo di San Vittore” o, meglio ancora, “la mamma di San Vittore”, perché il fascino della sua bontà riesce a conquistare anche i cuori più duri: “soffrirò, lavorerò e pregherò per attirare anime a Gesù” è il suo desiderio e sembra, dai risultati, che ci riesca molto bene.
La frattura del femore per una brutta caduta in piazza Duomo nel 1950, segna l’inizio del duo declino. Si spegne il 23 novembre 1951, consumata dal male ma soprattutto dall’amore donato senza misura. È stata beatificata il 26 giugno 2011.
(Autore: Gianpiero Pettiti)
Maria Angela Domenica Alfieri, detta semplicemente Maria, nasce a Borgo Vercelli, piccolo paese poco distante da Vercelli il 23 febbraio 1891. Cresce buona, dolce, pia e volenterosa, collabora in Parrocchia per annunciare la Parola di Dio. Sente sbocciare in sè la vocazione di servire unicamente e con tutte le sue forze Dio, e perciò, il 20 dicembre 1911, entra tra le Suore della Carità di S.Giovanna Antida Thouret, nel grande Monastero "S.Margherita" di Vercelli, prendendo il nome di Enrichetta. Dopo aver studiato a Novara, insegna in un asilo infantile di Vercelli, fino a quando, nel 1917, si ammala del terribile morbo di Pott. Il viaggio a Lourdes non ottiene la guarigione, ma, il 25 febbraio 1923 nel Monastero di Vercelli, per intercessione di Maria Immacolata, guarisce completamente.
Il 24 maggio 1923 è inviata al carcere di S.Vittore a Milano. In quell'ambiente, le Suore della Carità, hanno il compito di assistere, soccorrere e incoraggiare le detenute, oltre che a dare un conforto spirituale. Suor Enrichetta svolge così bene e con immenso amore questo compito, che le detenute la cercano in ogni momento e fanno a gara per stare più tempo possibile con lei. Si merita il titolo di "Mamma e Angelo di S.Vittore".
Intanto scoppia la guerra, e con lei, anche la persecuzione contro gli Ebrei. Il carcere di S.Vittore diventa la sede delle SS, i Tedeschi portano lì gli Ebrei in attesa del trasferimento
nei campi di sterminio. In questo doloroso frangente, Suor Enrichetta si adopera in modo ancora più straordinario per ridonare la dignità agli Ebrei, così duramente provati. Una detenuta Ebrea che deve consegnare un biglietto ai fratelli dicendo loro di scappare, viene aiutata da Suor Enrichetta, che però viene scovata con il messaggio. Viene arrestata, e passa alcune settimane in una cella buia e senza alcun servizio nei sotteranei della prigione. La cella diventa pellegrinaggio di laici e religiosi che vogliono confortarla, ma ancora una volta è lei che conforta glia altri. Viene liberata per essere fucilata, ma è salva per interessamento del Cardinale di Milano, il beato Mons. Ildefonso Schuster che scrive a Mussolini. Viene allora trasferita nella casa Provinciale di Brescia, dove scrive le "Memorie", il diario di prigionia.
E' richiamata a S.Vittore, dove continua il suo apostolato illuminando e riscaldando con l'amore di Dio l'universo di umanità da lei incontrato. La mamma di San Vittore muore il 23 novembre 1951. Nel 1995, dopo l'inizio del processo di beatificazione aperto dal Card. Martini, la sua salma, viene traslata dal cimitero di Borgo Vercelli, all'Istituto delle Suore della Carità in via Caravaggio 10, a Milano. E' stata beatificata a Milano il 26 giugno 2011.
Nella diocesi di Milano la sua memoria si celebra il 26 novembre.
(Fonte: Encoclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San, pregate per noi.

*Santa Felicita e sette fratelli - Martiri (23 novembre)

m. Roma, 165
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Massimo sulla via Salaria nuova, Santa Felicita, martire.
Il più antico documento che ricorda la martire Felicita il Martirologio Geronimiano, il quale, alla data del 23 novembre, ha: "Romae in cimiterio Maximi, Felicitatis" (il cimitero di Massimo è sulla via Salaria Nuova). Questa notizia del Geronimiano è confermata dagli itinerari, i quali indicavano ai pellegrini il sepolcro della martire in quel cimitero, e dalle biografie dei papi che lo avevano restaurato. Un frammento di epitafio ci fa sapere che due cristiani si erano scelti qui il sepolcro:
Conferma questa notizia il fatto che, al tempo di Gregorio Magno (590-604), tra gli altri olii raccolti dal presbitero Giovanni sui sepolcri dei martiri romani, fu offerto alla regina
Teodolinda anche l'olio della lampada che ardeva presso il sepolcro della martire. Egli, tuttavia, tratto in inganno dalla pittura murale, rappresentante Felicita in mezzo a sette figure, credette che qui riposassero con lei i suoi sette figli.
Il Burkitt, contro l'opinione comune, ha preteso dimostrare, senza argomenti convincenti, che la Felicita del Canone romano, non è la compagna di Perpetua, ricordata il 7 marzo, ma la Felicita del 23 novembre.
Felicita è conosciuta comunemente come la madre dei sette fratelli martiri. La sua passio è pervenuta attraverso due testi: il primo, molto breve, è conservato in numerosi mss., il secondo si riallaccia ad una traslazione di reliquie a Benevento ed è un rimaneggiamento senza valore del primo. Secondo la passio più antica, composta tra la fine del sec. IV e l'inizio del sec. V, Felicita, ricca vedova, fu accusata da sacerdoti pagani all'imperatore Antonino. Publio, prefetto di Roma, incaricato dall'imperatore di giudicare la santa, cominciò ad interrogarla da sola, e tuttavia non ottenne alcun risultato. Il giorno dopo fece condurre la madre e i sette figli presso il foro di Marte, ma Felicita esortò i figli a rimanere saldi nella fede. Il giudice se li fece condurre davanti l'uno dopo l'altro: Gennaro, Felice, Filippo, Silano, Alessandro, Vitale e Marziale. Non riuscendo a piegare la loro costanza, li assegnò a diversi giudici incaricati di eseguire la sentenza di morte, che fu eseguita con diversi supplizi.
Questo racconto è una imitazione dell'episodio biblico dei sette fratelli Maccabei e non ha alcuna base storica. Gli Acta di Felicita, inoltre, richiamano quelli analoghi di s. Sinforosa e dei suoi sette figli. I sette nomi, dati ai pretesi figli di Felicita, si trovano nella Depositio Martyrum alla data del 10 luglio, senza alcun rapporto di parentela fra loro e con Felicita Poiché questi martiri erano sepolti in quattro cimiteri, l'agiografo ha creduto opportuno di scrivere che la sentenza fu eseguita da quattro giudici. E' da aggiungere che l'autore non dice dove fosse il sepolcro dei martiri e tanto meno il loro giorno anniversario. Damaso, poi, nell'epigrafe in onore dei ss. Felice e Filippo, mostra di ignorare questa parentela e i tre versi che si riferiscono a Felicita sono di origine dubbia.
Sul sepolcro di Felicita, papa Bonifacio I (418-22) edificò una basilica nella quale egli stesso fu sepolto, come indicano il Martirologio Geronimiano (VI sec.) e il Liber Pontificalis. La devozione del papa a Felicita nacque dall'essersi egli rifugiato in quel cimitero ed avere abitato in costruzioni sopra terra durante lo scisma di Eulalio, terminato come egli ritenne, per opera della santa. Nella basilica, s. Gregorio Magno recitò un'omelia nel dies natalis della martire, facendo riferimento alla passio. I resti di un dipinto del sec. VIII, nella stessa catacomba, mostrano il Redentore che dà la corona a Felicita e a sette martiri, quegli stessi che sono stati creduti figli di Felicita.
Presso le terme di Traiano dal lato verso il Colosseo, nel 1812 fu scoperto un oratorio in onore
della santa con la sua immagine; qui si recavano le matrone a pregare. Felicita, come attesta l'iscrizione ivi scoperta, posta ai lati del capo, era venerata come protettrice delle donne romane:FELICITAS CULTRIX ROMANARUM.
L'oratorio, di modeste dimensioni, era ornato, nella nicchia dell'altare, da una pittura del sec. V-VI, la quale rappresentava la martire, eretta, in figura di orante, con intorno i suoi sette pretesi figli, e in alto la figura' del Redentore, che tiene nella destra una corona gemmata per cingerle il capo.
Quando il dipinto venne alla luce, mostrava a destra, in basso, la figura di un carceriere con la chiave: forse perché si credeva che Felicita fosse stata in carcere in questo luogo, prima di sostenere il martirio. Il De Rossi ritiene che il sito fosse l'abitazione di Felicita: se ciò corrispondesse alla realtà, si spiegherebbe la devozione delle matrone romane per esso.
Il Martirologio Romano commemora Felicita alla data del 23 novembre, con un elogio preso dalla passio.
E' invocata, a causa dei pretesi sette figli, dalle donne che desiderano avere prole.
(Autore: Filippo Caraffa - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santa Felicita e sette fratelli, pregate per noi.

*San Gregorio II di Agrigento - Vescovo (23 novembre)

591 - 630
Nato ad Agrigento nel 559 e avviato alla carriera ecclesiastica, si entusiasmò per i continui pellegrinaggi che in quel tempo si organizzavano per la Terra Santa, e nel 578 partì per Cartagine. Da qui viaggiò fino a Gerusalemme.
Dopo la visita ai luoghi santi, si ritirò per quattro anni in solitudine di studio e di preghiera, e nel 584, rientrò a Gerusalemme. Di là si recò in Antiochia e a Costantinopoli dove la sua fama giunse all'orecchio dell'Imperatore Maurizio. Fu invitato a prendere parte ad un concilio tenuto a Costantinopoli.
Giunto a Roma fu consacrato vescovo e destinato alla chiesa agrigentina, dove tornò nel 591. A causa di un'accusa ingiusta fu incarcerato a Roma ma il Papa, in un concilio di 150 vescovi per discutere la causa di Gregorio, ne riconobbe l'innocenza.
Nel 595 costruì nella sua diocesi un tempio ai Santi Pietro e Paolo. Fondò parecchi collegi per l'istruzione delle donne, aiutato dalla madre.
Studioso di teologia e delle scienze fisiche e mediche lasciò molti scritti. Sostenne la teoria del movimento della terra attorno al sole, conciliando la scienza con l'interpretazione della Bibbia. Negli ultimi anni della sua vita si ritirò in solitudine. Morì ad Agrigento nel 630. (Avvenire)
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Ad Agrigento, San Gregorio, vescovo, che si tramanda abbia commentato i libri sacri, aprendo agli incolti i misteri divini, ad Agrigento nel 559, morto ivi nel 630. Avviato alla carriera Ecclesiastica, si entusiasmò per i continui pellegrinaggi, che in quel tempo si organizzavano per la Terra Santa, e nel 578, all'insaputa dei genitori, partì per Cartagine, donde, da tre monaci romani, fu condotto a Gerusalemme.
Dopo la visita ai luoghi saliti, si ritirò per quattro anni in solitudine di studio e di preghiera, e netl584, rientrò a Gerusalemme. Di là si recò in Antiochia e a Costantinopoli dove la sua fama giunse all'orecchio dell'Imperatore Maurizio. Fu invitato a prendere parte ad un concilio tenuto
a Costantinopoli, dove intervennero tutti i Vescovi dell'Oriente, per inquisire su alcune eresie, fra cui l'arianesimo.
Gregorio, dopo aver operato molte conversioni, partì per Roma. Colà fu consacrato Vescovo e destinato alla chiesa agrigentina, dove tornò nel 591. Ad Agrigento cominciò una grandiosa opera di apostolato in favore dei poveri, e degli umili. Ingiustamente e ignobilmente accusato dall'invidia di Sabino e Crescentino che volevano sostituirlo nel Vescovado con un certo Lencio, fu chiamato a Roma e messo in carcere. Ma i prodigi che Gregorio compì nel carcere stesso segnarono l'inizio delle prove i in favore dell'innocenza di lui.
Il papa, in un concilio di 150 Vescovi per discutere la causa di Gregorio, fu lieto di riconoscerne e proclamarne l'innocenza.
Liberato e restituito allora ad Agrigento, vi continuò la sua missione apostolica.
Nel 595 costruì nella sua diocesi un tempio ai SS. Pietro e Paolo.
Fondò parecchi collegi per l'istruzione delle donne agrigentine ed ebbe a collaboratrice la mamma sua, Teodata, che ne era istitutrice.
Dottissimo nelle discipline teologiche e anche nelle scienze fisiche, pur tra le tante occupazioni del suo apostolato, lasciò molti scritti, fra i quali le Orazioni sui dommi della Fede degli Antiocheni, le Dommatiche, le Encomiastiche, le Orazioni sulla Quaresima e sull'apostolo Andrea, e molti altri scritti pubblicati a Costantinopoli.
Ma gli scritti più importanti sono le Omelie, dettate in greco, che sono un commento al libro
dell'Ecclesiaste, da lui esposto in modo così luminoso da renderne facilmente intelligibili anche i concetti più astrusi.
Versatissimo nell'astronomia, sostenne la teoria del movimento della terra attorno al sole, conciliando mirabilmente la scienza con l'interpretazione della Bibbia, circa la pretesa immobilità della terra.
Studiò e risolse molti problemi di fisica e fu anche profondo in medicina, operando guarigioni che avevano del miracoloso.
Negli ultimi anni della sua vita si ritirò in solitudine.
Dal Codice basiliano II parrebbe che Gregorio fosse morto in Ispagna, dove si era recato per una missione; ma Leonzio, nella "Vita di San Gregorio", afferma che morì ad Agrigento.
La memoria si celebra il 23 novembre mentre, nel calendario delle Chiese di Sicilia, la memoria è celebrata il 25 novembre.
Nel 2005 la Congregazione per il Culto Divino ha proclamato San Gregorio Agrigentino patrono della conservazione dei bei archeologici, in particolare di quelli architettonici.
(Autore: Raimondo Lentini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Gregorio II di Agrigento, pregate per noi.

*Santa Lucrezia di Merida - Martire (23 novembre)

Sec. IV
Etimologia: Lucrezia = dalla gens Lucretia, famiglia romana
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Mérida in Spagna, Santa Lucrezia, martire.
Molti nomi frequenti nell'antichità greca o romana sono altrettanto frequenti nella civiltà cristiana di ieri e di oggi, e di conseguenza nel calendario dei Santi. Nomi quali Alessandro, Filippo, Marco, Massimo, Felice, Fabio.
A questi si può aggiungere il nome appartenente ad una delle più antiche e quindi più nobili famiglie romane, il nome cioè di Lucrezio, che risale addirittura al tempo dei Sette Re di Roma.

Si chiamò Lucrezio anche il maggior poeta in lingua latina prima di Virgilio: Tito Lucrezio Caro, l'autore del poema De rerum natura.
Ancor più celebre fu il nome di Lucrezia, portato dalla virtuosa moglie di Collatino, disonorata da Sesto Tarquinio, indegno figlio dell'ultimo Re di Roma, l'etrusco Tarquinio il Superbo.
Nella storia romana Lucrezia ha quasi i tratti di un'eroina romantica. Piuttosto che sopravvivere al disonore, ella infatti preferì la morte.
La sua drammatica fine eccitò lo sdegno dei Romani, affrettando la cacciata dei Tarquini e la fine della monarchia.
Il nome di Lucrezia è riportato nel Martirologio Romano una sola, il 23 novembre.
Originaria della Spagna, di una Spagna evidentemente romanizzata quale era la penisola iberica nei secoli dell'Impero, Santa Lucrezia è tradizionalmente considerata martire, caduta al tempo della
persecuzione di Diocleziano e sotto il prefetto Daciano.
Sua patria e luogo della sua morte sarebbe stata la città di Mérida, città anche della più celebre martire fanciulla Santa Eulalia, festeggiata il 10 dicembre.
Forse proprio la gloria di questa concittadina ha contribuito ad oscurare il ricordo di Santa Lucrezia.
Sul suo conto infatti non si conosce nulla e solamente si sa che il suo culto è molto antico e radicato.
Basta comunque il martirio di Santa Lucrezia per attribuire al suo nome, già reso nobile dalla virtuosa matrona romana, una risonanza ancor più alta.
Se infatti il sacrificio della moglie di Collatino rappresenta un forte attaccamento alla virtù, il martirio accettato dalla martire di Mérida esprime un’incommensurabile amore per la Verità.
(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santa Lucrezia di Merida, pregate per noi.

*Beata Margherita di Savoia - Religiosa Domenicana (23 novembre)
Pinerolo, Torino, 1390 - Alba, Cuneo, 23 novembre 1464

La Beata Margherita di Savoia è conosciuta con l'appellativo di «grande».
Nata nel 1390 a Pinerolo rimase presto senza genitori e passò insieme alla sorellina Matilde sotto la tutela dello zio Ludovico, il quale, per mancanza di eredi, succedeva al defunto principe Amedeo.
Per risolvere le lunghe discordie tra il Piemonte e il Monferrato lo zio la destinò in sposa al marchese di Monferrato.
Lei acconsentì, nonostante, anche grazie alle parole di Vincenzo Ferrei, pensasse già al chiostro.
Alla morte del marito si ritirò nel palazzo di Alba, dove, con l'approvazione di Papa Eugenio IV, nel 1441, fondò il monastero di Santa Maria Maddalena.
Vestito l'Abito del Terz'Ordine Domenicano, più tardi abbracciò la Regola più austera delle Monache dell'Ordine. Morì nel 1464. (Avvenire)
Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino
Emblema: Tre frecce, Corona deposta
Martirologio Romano: Ad Alba in Piemonte, Beata Margherita di Savoia, che, rimasta vedova, si consacrò a Dio nel monastero delle monache dell’Ordine dei Predicatori da lei fondato.
La Beata Margherita di Savoia, da non confondere assolutamente con l’omonima regina d’Italia vissuta ben cinque secoli dopo, era imparentata con le principali famiglie reali d’Europa: suo padre era il conte Amedeo di Savoia-Acaja, mentre sua madre era una della sorelle di quel Clemente VII che durante il Grande Scisma si dichiarò Papa ad Avignone.
Margherita si meritò addirittura l’appellativo di “Grande”.
Fu infatti testimone d’evangelica grandezza nei differenti stati in cui Dio la mise alla prova: di figlia, di sposa, di sovrana ed infine di religiosa.
Nata a Pinerolo tra il 1382 ed il 1390, sin dalla sua giovinezza fu l’immagine del candore ed una precoce saggezza le fece aborrire tutto ciò che invece il mondo è solito amare.
Rimasta ben presto orfana, passò con la sorellina Matilde sotto la tutela dello zio Ludovico, che per mancanza di eredi maschi diretti succedette al defunto Principe Amedeo.
Primo pensiero di Ludovico di Savoia fu di porre fine alle lunghe discordie intercorse tra Piemonte e Monferrato e da ambe le parti non si guardò che a Margherita come a pegno sicuro
di pace duratura.
Da decenni, infatti, il Piemonte era sconvolto per il suo possesso dalle guerre tra i Savoia, i marchesi di Saluzzo, i marchesi del Monferrato ed i Visconti di Milano.
La giovane principessa, che in cuor suo già era orientata al chiostro, riconfermata ancora di più nel suo proposito da San Vincenzo Ferreri, a quel tempo predicatore in terra piemontese.
Con cuore assai generoso Margherita sacrificò i suoi più cari ideali per il bene comune e la pace fra le due zone del Piemonte, divenendo dunque sposa nel 1403 del Marchese di Monferrato, Teodoro II Paleologo, molto più anziano di lei.
Nessun miraggio terreno riuscì però a sedurre la giovane marchesa, che iniziò la nuova vita di sovrana con i piedi per terra ma con il cuore fisso in cielo, atteggiamento tipico del cristiano. Dopo essere stata la saggia consigliera di suo marito e madre tenerissima dei sudditi, rimase vedova nel 1418.
Governò allora il marchesato in prima persona quale reggente, sino alla maggiore età del figliastro Giovanni.
Si ritirò poi nel palazzo di Alba di sua proprietà insieme alle sue più fedeli damigelle, per dedicarsi ad opere di carità, rifiutando la proposta di matrimonio avanzatale da Filippo Maria Visconti.
Divenne terziaria domenicana e fondò poi una congregazione, prima di terziarie e poi nel 1441, con l’approvazione di Papa Eugenio IV, di monache. Nacque così il Monastero di Santa Maria Maddalena in Alba.
La nuova vita religiosa religiosa di Margherita non fu però esente da travagli e difficoltà.
Un giorno ebbe una visione di Cristo, che le porse tre frecce recanti ciascuna una scritta: malattia, calunnia e persecuzione.
Infatti nel periodo seguente ebbe a patire tutti e tre i tormenti indicati.
Afflitta da una salute assai cagionevole, fu accusata d’ipocrisia, poi di tirannia nei confronti delle consorelle.
Inoltre un pretendente da lei respinto sparse in giro la voce che il monastero fosse un centro ove si propugnava l’eresia dei valdesi.
Il frate che era loro guida spirituale fu arrestato e, quando Margherita giunse al castello per chiederne il rilascio, il portone le fu chiuso violentemente in faccia, fratturandole anche una mano.
Nonostante tutte queste difficoltà, per circa venticinque anni condusse una vita ritirata di preghiera, studio e carità.
La Biblioteca Reale di Torino conserva un volume contenente le lettere di Santa Caterina da Siena, copiate e rilegate “per ordine della nostra illustre signora, Margherita di Savoia, marchesa del Monferrato”.
Proprio ad imitazione della santa Dottore della Chiesa, che durante la cattività avignonese si era
spesa anima e corpo per il ritorno a Roma del pontefice, Margherita si adoperò intensamente affinchè suo cugino Amedeo VIII, primo duca di Savoia, eletto antipapa con il nome di Felice V dal Concilio di Basilea, recedesse dalla sua posizione.
Così avvenne: Felice V abdicò e repose la tiara, riconoscendo come unico capo della Chiesa il papa allora legittimamente regnante a Roma.
Tornato dunque ad essere Amedeo di Savoia, continuò a guidare l’Ordine Mauriziano da lui fondato nel monastero sulle rive del lago di Ginevra ed il Papa lo ricompensò per aver ricomposto l’unità della Chiesa nominandolo cardinale e legato pontificio per gli stati sabaudi e dintorni.
Il Cardinale Amedeo morì poi in fama di santità ed ancora oggi riposa nella Cappella della Sindone, adiacente alla cattedrale torinese.
Tornando invece a Margherita ed al suo monastero di clausura, degno di nota è ancora un misterioso avvenimento la cui prova documentaria è stata resa pubblica solo nell’anno 2000: nell’ormai lontano 16 ottobre 1454, circondata da tutte le sue consorelle e dal confessore padre Bellini, agonizzava una suora.
Presente anche la superiora e fondatrice del convento, la Beata Margherita appunto, durante questa triste circostanza si verificò il fatto straordinario di cui recitano così i documenti: “Avvenne la visione profetica avuta e riferita agli astanti in punto di morte dall’agonizzante Suor Filippina alla quale Nostra Signora Santissima, Santa Caterina da Siena, il Beato Umberto di Savoia e l’Abate Guglielmo di Savoia, predissero avvenimenti prosperi e funesti per la Casa di Savoia, fino ad un tempo futuro imprecisato di terribili guerre, di esilio in Portogallo di un altro Umberto di Savoia e di un mostro proveniente dall’Oriente con grande sofferenza per l’Umanità, mostro che sarà però distrutto da Nostra Signora del Santo Rosario di Fatima se tutti gli esseri umani la invocheranno con grande contrizione”.
Ogni lettore non sprovveduto potrà ben scorgere fra queste righe delle allusioni ai tragici avvenimenti del XX secolo ed al messaggio poi trasmesso anche dalla Madonna nelle apparizioni di Fatima.
Questa Suor Filippina era in realtà una cugina di Margherita, dunque di sangue sabaudo, sfuggita ad una congiura contro la sua famiglia.
La sua vicenda sarebbe però assai lunga complessa e snaturerebbe l’oggetto della presente.
Margherita di Savoia morì ad Alba il 23 novembre 1464, circondata dall’affetto e dalla venerazione delle sue figlie spirituali.
Il pontefice piemontese San Pio V, già religioso domenicano e priore del convento di Alba, nel 1566 permise per Margherita di Savoia un culto locale riservato al Monastero di Alba, mentre Papa Clemente IX la beatificò solennemente il 9 ottobre 1669, fissandone la memoria al 27 novembre per tutto l’Ordine Domenicano, oggi celebrata anche da alcune diocesi piemontesi.
Il Martyrologium Romanum la festeggia invece al 23 novembre, anniversario della nascita al cielo della Beata.
Il suo corpo incorrotto è ancor oggi oggetto di venerazione nella chiesa di Santa Maria Maddalena ad Alba, anche dopo il trasferimento definitivo nel monastero in una nuova sede avvenuto nel 1956.
Margherita di Savoia, grande ed attiva figura femminile nel Piemonte del suo tempo, fautrice di pace e di concordia fra le varie zone della regione, meriterebbe a pieno titolo di essere onorata,
accanto al protovescovo vercellese Sant’Eusebio, quale celeste patrona del Piemonte, nonché la canonizzazione affinché si possa universalmente guardare a lei quale virtuoso modello di sposa, di madre, di sovrana e di religiosa.
Preghiera
O Dio, che hai chiesto alla Beata Margherita di Savoia
di rinunciare alle ricchezze del mondo
per vivere la povertà evangelica,
concedici di seguire da vicino Cristo povero
per essere arricchiti della sua grazia e della sua gloria.
Egli è Dio e vive e regna con Te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Margherita di Savoia, pregate per noi.

*Beata Maria Cecilia Cendoya Araquistan - Suora Visitandina, Martire in Spagna (23 novembre)
Schede dei gruppi a cui appartiene:
“Beate Martiri Spagnole Visitandine”
“Martiri della Guerra di Spagna”

Azpeitía (Castiglia), 10 gennaio 1910 - Madrid, 23 novembre 1936
Maria Cecilia Cendoya Araquistan nacque, il 10 gennaio 1910, ad Azpeitia (Guipúzcoa), ma si trasferì presto a Azcoiía.
Il 9 ottobre 1930 entrò nel primo monastero della Visitazione a Madrid ove tutta la sua vita religiosa fu contrassegnata dalla persecuzione che la Chiesa di Spagna subì negli anni della guerra civile.
Già prima di fare la professione, il 27 settembre 1932, aveva manifestato la sua volontà di rimanere salda fino alla fine: «Prima dovrebbero tagliarmi la testa», rispondeva nel suo
simpatico castigliano a chi le proponeva di abbandonare il convento.
Il suo martirio fu particolarmente doloroso poiché fu fucilata due volte. In effetti, il 18 novembre 1936 suor Maria Cecilia, che aveva allora 26 anni, nell'udire gli spari e nel vedere la suora che la teneva per mano cadere a terra, iniziò a correre senza sapere cosa fare.
Fu presto fermata e si consegnò dicendo: «Sono una religiosa». Condotta a una «checa» (prigione sotterranea), raccontò a due donne, che si trovavano lì, cosa era successo, trasformandosi così in una «testimone eccezionale del martirio delle sue sorelle ».
All’alba del 23 dicembre, presso il muro di cinta del cimitero di Vallecas, nei pressi di Madrid, rimase salda dinanzi ai carnefici; un proiettile diretto al cuore attraversò anche la croce che portava al petto e che oggi é una straordinaria testimonianza della sua morte per Cristo.

Martirologio Romano:
Presso Madrid in Spagna, Beata Maria Cecilia (Maria Felicita) Cendoya y Araquistain, vergine dell’Ordine della Visitazione di Santa Maria e martire, che, durante la grande persecuzione, nella stessa notte in cui le sue consorelle erano state arrestate si consegnò spontaneamente ai miliziani e confermò insieme alle compagne con il supremo sacrificio la sua testimonianza di fede.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Maria Cecilia Cendoya Araquistan, pregate per noi.

*Beato Michele Agostino Pro Juárez - Sacerdote Gesuita, Martire (23 novembre)
Scheda del Gruppon a cui appartiene:
"Martiri Messicani"

Guadalupe, Messico, 13 gennaio 1891 – Città del Messico, Messico, 23 novembre 1927
Nato a Guadalupe nel 1891, entra nella Compagnia di Gesù nel 1911, dopo che due sorelle avevano preso il velo. Studia in Nicaragua, Spagna e Belgio, dove viene ordinato prete nel 1925. Tornato in Messico, svolge il suo apostolato in un periodo di persecuzione contro la Chiesa.
Nel 1927 viene ingiustamente accusato di far parte di un complotto per uccidere un generale candidato alla presidenza della Repubblica.
Dopo un processo-farsa, lo fucilano.
Ai suoi funerali, sfidando i divieti, accorrono 20mila persone. È Beato dal 1988. (Avvenire)
Martirologio Romano: Nel villaggio di Guadalupe nel territorio di Zacatecas in Messico, beato Michele Agostino Pro, sacerdote della Compagnia di Gesù e martire, che, in tempo di persecuzione contro la Chiesa, condannato a morte senza processo come complice di un delitto, subì il martirio che aveva ardentemente desiderato.
Il papà, che oltre ad essere un buon cristiano è anche ingegnere minerario, non lo alleva nella bambagia e fin da piccolo lo porta con sé a visitare le miniere, perché possa rendersi conto della dura vita di quei lavoratori.
Così il bambino cresce affinando la sua sensibilità e con una sollecitudine particolare per i problemi sociali in genere che lo spinge ad entrare a 20 anni nella Compagnia di Gesù: perché da sacerdote potrà maggiormente essere vicino a chi è nel bisogno e predicare il vangelo di Cristo cercando di coniugare carità e giustizia.
Nato nel 1891 a Guadalupe, terra di Maria, da novizio e da chierico studia e matura la sua vocazione – oltreché in Messico – anche in Nicaragua, Spagna e Belgio e qui viene ordinato prete
nel 1925.
Ritorna nel suo Messico l’anno successivo, proprio nel bel mezzo della persecuzione che sta insanguinando la Chiesa. C’è tanto da fare per sostenere i cattolici perseguitati, aiutare i poveri, portare la sua assistenza a malati e moribondi.
Lo fa con la sua carica di ottimismo e la sua vitalità ed anche con una buona dose di coraggio, ricorrendo a travestimenti più o meno seri che gli permettono di eludere i controlli della polizia e di svolgere il suo lavoro sacerdotale clandestino, celebrando in segreto l’Eucaristia e predicando di nascosto gli esercizi spirituali. Si calcola che in un giorno sia riuscito a distribuire anche 1500 comunioni. In compagnia della sua chitarra e facendosi aiutare dalle sue battute spiritose e dalla sua inimitabile mimica, cerca di sollevare il morale e di sostenere tutti quelli che incontra.
Questo prete che sembra avere ottimismo da vendere, in realtà passa nel crogiolo della sofferenza e della depressione a causa della persecuzione, delle sofferenze che stanno patendo il suo popolo e la sua famiglia, dei problemi che gli sta dando la sua salute malferma. Il segreto per superare tutto questo e per essere di aiuto agli altri, nonostante tutto, lo trova nell’unione con Gesù, perché ha scoperto che non c’è “un mezzo più rapido ed efficace per vivere intensamente unito a Gesù che la santa messa”.
Tenuto costantemente sotto controllo dalla polizia, viene alla fine arrestato con la falsa accusa di aver partecipato all’attentato contro un generale. Dopo un processo-farsa e in violazione dei più elementari diritti umani lo fucilano a Città del Messico il 23 novembre 1927: ha solo 36 anni di età e due di sacerdozio, ma così intenso e gioioso da valere una vita intera.
Muore con il crocifisso in una mano e il rosario nell’altra, esclamando «Viva Cristo re», tanto che ad un soldato del plotone di esecuzione, come al centurione ai piedi della croce, scappa di dire: «È così che muoiono i giusti».
Al suo funerale, sfidando la polizia e i divieti delle autorità, partecipano 20 mila persone, riconoscenti per quanto da lui ricevuto e certi che egli è un martire di Cristo. Dello stesso parere è anche la Chiesa, che per bocca di Giovanni Paolo II° il 25 settembre 1988 ha proclamato beato padre Michele Agostino Pro.
(Autore: Gianpiero Pettiti)
Guadalupe, in Messico, è un luogo universalmente noto: è qui che, il 9 dicembre 1531, la Madonna
apparve all’indio Juan Diego, oggi Santo.
Proprio a Guadalupe, il 13 gennaio 1891, nasce Michele Agostino Pro; il padre è ingegnere minerario e, consentendo al figlio di visitare le miniere, contribuisce alla formazione in lui di un’acuta sensibilità alla triste realtà di quella dura vita e ai problemi sociali in genere.
Nella famiglia Pro si rivela una vena religiosa che porta abbondanti frutti: le due sorelle maggiori pronunciano i voti; nel 1911 Agostino entra come novizio nella Compagnia di Gesù, presso la quale compie i suoi studi, recandosi anche in Nicaragua, in Spagna e in Belgio.
Qui, il 30 agosto 1925, viene ordinato sacerdote ad Enghien; l’anno successivo ritorna in Messico, dove è in corso una spietata persecuzione contro la Chiesa: Padre Pro è costretto a compiere la vita religiosa nella clandestinità, ricorrendo a continui camuffamenti per sfuggire ai militari.
Incurante dei rischi, superando inoltre i problemi che gli derivano dalla fragile costituzione, si prodiga sia nelle attività assistenziali che in quelle pastorali, arrivando a distribuire anche 1500 comunioni al giorno.
Dotato di una natura gioiosa e di un acuto humour, sa catturare l’attenzione della gente con la sua chitarra, le canzoni e le battute di spirito, ma soprattutto con l’assistenza spirituale e materiale: il suo sacerdozio è speso per stare vicino a chi si trova nel bisogno e nella sofferenza. In una composizione del 1927, dichiara di voler condividere con Gesù il Calvario e la Croce. Sono parole premonitrici: viene arrestato con l’accusa di aver preso parte ad un attentato
contro il generale Alvaro Obregon, che aspirava alla presidenza della Repubblica; in realtà, Agostino non aveva mai condiviso azioni violente, guidato dalla morale della fede e dal rispetto dell’ordine costituito che gli era stato insegnato in famiglia.
Non viene istruito un regolare processo, né si tiene conto delle testimonianze che provano la sua innocenza: il 23 novembre 1927 viene trascinato davanti al plotone di esecuzione.
Si raccoglie in preghiera, nella mano destra ha il Crocefisso, nella sinistra il Rosario, è in piedi di fronte ai soldati, incrocia le braccia: le sue ultime parole sono «Viva Cristo Re!».
«È così che muoiono i giusti», mormora uno dei suoi carnefici.
Ventimila persone, sfidando le autorità, partecipano ai suoi funerali a Città del Messico. Padre Michele Agostino Pro è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 25 settembre 1988; viene ricordato il 23 novembre.
(Autore: Vito Calise - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beato Michele Agostino Pro Juàrez, pregate per noi.

*Santi Mustiola ed Ireneo - Martiri (23 novembre)

Santa Mustiola fu una Martire di Chiusi in Toscana e viene ricordata insieme al Martire chiusino Sant'Ireneo.
Cosa insolita tra i non molti martiri locali venerati in Toscana, la figura di Santa Mustiola può ragionevolmente ritenersi attestata, se non da fonti documentarie, almeno da un culto antichissimo che lega il suo nome a una delle catacombe di Chiusi, sulla quale sorse anche una basilica a lei intitolata, poi abbandonata quando le reliquie della martire furono traslate nella cattedrale cittadina.
Ireneo era nel III secolo un diacono di Chiusi, che dette sepoltura al corpo di San Felice, sacerdote di Sutri e  per questo venne arrestato.
Gravato di catene, Ireneo fu costretto a correre davanti al carro del Prefetto Turcio, da Sutri fino a Chiusi.
Poi incarcerato, venne pietosamente visitato e soccorso da Mustiola.
Patronato: Chiusi (SI), Abbazia di Torri
Martirologio Romano: Presso Chiusi in Toscana, Santa Mustìola, martire.
Le origini di Santa Mustiola
Se sono storicamente certi l’esistenza e il martirio di Santa Mustiola, supportati da documenti ufficiali antichissimi, non è altrettanto sicura la sua provenienza ed il modo in cui arrivò a Chiusi. Anche se, a dire il vero, per quanto riguarda il martirio, esistono due versioni.
C’è chi sostiene che sia avvenuto nel 258 sotto l’imperatore Valeriano e chi, come recita la “Passio”, nel 274, sotto l’imperatore Aureliano.
Molti studiosi nel corso dei secoli hanno tentato di pervenire alla realtà dei fatti e qualcuno ha pensato pure di esserci riuscito.
Purtroppo però le molte teorie scaturite, a volte contrastanti tra loro, hanno di fatto prodotto soltanto ulteriori incertezze ed ancora oggi il modo della sua venuta a Chiusi rimane avvolto nel mistero, o meglio, nella leggenda.
Tra i vari testi che ho potuto consultare ho scelto di trascrivere quello che forse potrebbe avere un tenue fondamento storico. Si tratta di un piccolo libro pubblicato in Roma nel 1696, con licenza dei superiori (1), dalla stamperia di Marcantonio e Orazio Campana, dal titolo “Breve racconto della prosapia e martirio di Santa Mostiola”. Naturalmente lo scritto di cui sopra, che narra la storia della parentela con l’imperatore Claudio II il Gotico, è in italiano antico e quindi poco comprensibile. Ho cercato quindi di riassumerlo e rendere la sua lettura il più scorrevole possibile, pur non alterandone l’originalità. C’è però chi asserisce, forse anche con qualche certezza, che la nobiltà di Mustiola sia derivata dalla gens Asinia, arrivata ai fasti dell’impero Romano con Asinio Volusiano Gallo, figlio dell’imperatore G. Vibio Treboniano Gallo. La consanguineità con Claudio II, il Gotico si tratterebbe, quasi sicuramente, di pura leggenda e potrebbe aver indotto nell’errore il fatto che un’altra donna, anch’ella della gens Asinia, Gemina Asinia Bebiana, aveva sposato il sopra citato imperatore G. Vibio Treboniano Gallo, del quale Claudio II il Gotico, da giovane, era un ufficiale.

La sua provenienza familiare ce la potrebbe forse confermare un’iscrizione funeraria, proveniente dalla catacomba di Santa Mustiola, oggi custodita in Cattedrale, dove è citata una certa Giulia Asinia Felicissima “ex genere Mustiolae sanctae”.

“L’imperatore Claudio II, il Gotico, ebbe i suoi natali da nobilissimi parenti della Dalmazia.
Fin da giovanissimo entrò a far parte dell’esercito Romano sotto Decio, dal quale ebbe un gran numero di doni in ricompensa del suo coraggio e valore.
Gli arrise sempre favorevole la fortuna e sotto Valeriano fu nominato Tribuno dell’esercito e Prefetto della quinta legione.
La sua prudente condotta lo portò nelle grazie dell’imperatore che non gli lesinò generosità e riconoscimenti, come attesta la lettera scritta al Procuratore della Siria e registrata da Trebèllio Pollione (2).
Fu tanto amato e stimato da Gallieno che spesso lo onorò col titolo di “amico” e “padre”.
Alla sua morte fu eletto imperatore dall’esercito e confermato con grandi acclamazioni anche dal Senato di Roma. Chiamò vicino a se i parenti e distribuì loro cariche, onori e prerogative, come si conviene ai consanguinei dei regnanti.
Aveva due fratelli, Quintilio e Crispo.
Quest’ultimo una figlia di nome Claudia, la quale era sposata a Eutropio (3), nobilissimo cavaliere di Dardania, dai quali nacque Costanzo Cloro, padre del grande Costantino.
Tra le tante sorelle che ebbe, una si chiamava Costantina e si era unita in matrimonio con il Tribuno degli Assiri. Aveva anche una cugina di nome Mostiola.
Fu tanto glorioso per la repubblica, il governo di Claudio, che parve essere venuto al mondo per estirpare i Barbari e gli altri nemici dell’impero.
Uccise e tolse ad Aureolo (4) quanto aveva usurpato.
Combattendo contro i Goti e gli Sciti, sia per terra sia per mare, fece una tale strage che parve prodigioso il numero dei nemici uccisi.
E persino Trebèllio, che ne fece il racconto, durava fatica a crederci se non fosse stata sempre grande la fama delle legioni romane.
Rimase imperatore soltanto due anni perché un’epidemia di peste lo uccise a Sirmio.
Alla sua morte il Senato di Roma diede il titolo di Augusto a Marco Aurelio Claudio Quintilio, suo fratello, che governò alcuni mesi.
Le truppe non lo riconobbero e al suo posto acclamarono Imperatore Aureliano.
La Principessa Mostiola, visti tanti cambiamenti repentini, in così poco tempo all’interno della sua famiglia, abbandonò Roma con pochi familiari e si ritirò in Chiusi, città della Toscana, lontana dalla stessa Roma tre sole giornate.
E’ incerto se partì da Roma battezzata, oppure lo fece Marco, che allora era Vescovo di Chiusi.
E’ in ogni modo sicuro che a Chiusi ella si prodigò molto in opere di carità.
Fu sempre riverita e ossequiata, non solo per la sua condizione di nobiltà, ma soprattutto per le proprie eroiche virtù”.
Il martirio di Santa Mustiola
“Divenuto Imperatore Aureliano, crudele per natura e anche molto superstizioso, non ci volle molta fatica ai rappresentanti dei Patrizi per convincerlo a perseguitare i Cristiani.
Lo persuasero che tutto quello che di male avveniva nell’Impero, come la schiavitù di Valeriano e la dappocaggine di Gallieno, che lasciò proliferare tanti Tiranni, fosse dato dall’ira degli Dei, irritati contro l’Impero e gli Imperatori che non si davano da fare per estirpare la religione cristiana. E c’è chi crede che tutta quella crudeltà usata in Roma, nel terzo anno del suo Impero, contro tanti nobili e Senatori, prendendo a pretesto la sedizione come racconta Vopisco, perché disobbedirono ai suoi ordini di consultare i libri sibillini (5), fu invece generata dal forte sospetto che questi fossero cristiani.
E se anche nel suo primo anno d’Impero si era prestato per cacciare dalla sua sede Paolo di Samosata, richiestogli dai Padri del Concilio d’Antiochia (6), lo fece solo per accattivarsi la benevolenza di tutti.
In seguito però gettò la maschera ed emise contro i cristiani un editto.
Non appena divulgato tale decreto, che prevedeva oltre alla carcerazione dei medesimi, anche la confisca di tutti i loro beni, in ogni provincia dell’impero e specialmente in Etruria, i ministri della giustizia e gli ufficiali fecero rispettare subito gli ordini, facendo perquisizioni e mettendo in galera e ceppi (7) i cristiani.
La Principessa Mostiola si diede subito da fare, servendosi sia della sua autorità sia delle proprie finanze, corrompendo i custodi delle carceri.
Andava di notte a visitare e confortare quei poveretti, incitandoli a rimanere fedeli alla loro religione. Faceva loro elemosine e gli dava tutto l’aiuto che poteva.
Giunta a Roma la notizia del gran numero di Cristiani messi in prigione, fu mandato in Toscana Lucio Turcio Aproniano, uomo Consolare e ministro molto rispettato.
Arrivato a Sutri (8), vi trovò un prete di nome Felice che diffondeva nel popolo la fede cristiana. Lo fece arrestare e durante l’interrogatorio egli confessò di essere un ministro della vera fede di Cristo.
Lo condannò alla lapidazione nel giorno ventitreèsimo del mese di giugno e il suo cadavere fu esposto nella pubblica piazza.
La notte seguente, il suo diacono Ireneo, lo seppellì vicino le mura della città.
Avvertito Turcio di quanto Ireneo aveva fatto, lo fece incatenare e condurre a Chiusi, dove anch’egli arrivò il giorno venticinquesimo del mese di giugno.
Giunto in città, l’uomo mandato da Roma, chiese subito ai ministri una relazione sul numero dei Cristiani che si trovavano in carcere.
Un uomo di nome Torquato, gli riferì anche che si trovava a Chiusi una dama nobilissima di nome Mostiola, cugina dell’imperatore Claudio II di fede cristiana, che nottetempo si recava alle carceri portando aiuti a coloro che vi erano detenuti e confortandoli, diceva loro di soffrire quelle pene nel nome di Cristo.
Turcio, dopo aver eretto un tribunale nella pubblica piazza di Chiusi, il terzo giorno di Luglio, fece chiamare la principessa Mostiola.
Durante l’interrogatorio lei stessa confessò d’essere cristiana e affermò anche la sua convinzione che quella religione, nella quale lei credeva ciecamente, non avrebbe potuto portare nessun nocumento al suo stato di nobile.
Turcio cercò di persuaderla a rinunciare alla sua fede e gli promise che se avesse ubbidito alle leggi dell’impero l’avrebbe lasciata libera.
La principessa però rimase ferma nelle sue convinzioni.
Allora Turcio, frustrato da tanta fermezza di principi esternati da Mostiola, ordinò che fossero condotti alla sua presenza Ireneo e tutti i cristiani chiusini detenuti.
Dopo aver sentito direttamente dalla loro voce quale era la propria Fede, ad uno ad uno li fece decapitare.
Ad Ireneo impose la tortura dell’eculeo (9) e chiese di rinnegare la sua religione facendo i dovuti sacrifici agli Dei. Questi, però, mentre cantando lodi a Dio, gli rispose che tanta grazia gli avrebbe fatto se lo avesse ucciso per la sua Fede.
Allora l’inquisitore romano ordinò di continuare la tortura e così Ireneo spirò, mentre era straziato dagli aguzzini per mezzo di ferri incandescenti.
Turcio pensò che dopo un così cruento spettacolo, la principessa Mostiola si fosse piegata ai suoi voleri, tornando all’adorazione degli Dei.
Ben presto però, si rese conto che questo non era accaduto, anzi, udì dalla voce stessa di Mostiola il desiderio di morire per Cristo.
Così facendo la nobile donna chiusina segnò il proprio destino.
Turcio la condannò ad essere battuta con le piombate, finché l’anima sua non fosse spirata.
Tutto questo accadeva il terzo giorno di luglio dell’anno di Cristo 275, nel secondo mese del pontificato di Eurichiano (10), quando Marco era vescovo di Chiusi ed era in atto la decima persecuzione della chiesa cattolica.
Proprio perché possa essere compreso quanto spietato e crudele fosse questo martirio, affermiamo che ci sono due opinioni a proposito delle piombate.
La prima è che fossero dei bastoni rivestiti di piombo, con cui si battevano le giunture delle ossa dei fedeli, finché per il dolore non morivano.
L’altra, forse la più credibile, è che si trattasse di piccole funi, o catenelle, appese alla testa di un bastone. Nella parte finale di queste vi erano attaccate alcune palle di piombo, con cui erano battuti i corpi fino all’esalazione dell’anima. Non vi è dubbio alcuno che l’uso di tali strumenti fosse proibito contro i nobili, ma pare che tale divieto venisse sospeso, quando si trattava di infliggerlo ad corretionem (per correzione) e non come ultimo supplizio.
Oltre al reato di diffondere la fede di Cristo, era contestato al condannato anche il reato di Lesa Maestà.
Tale reato, secondo l’accusa, rendeva la persona che lo aveva commesso indegna di stima.
A testimonianza di questo, c’è d’esempio il martirio di Santa Bibiana, anche lei nobile dama Romana, uccisa con le piombate.
I corpi di Mostiola e di Ireneo, insieme a quelli di tanti altri martiri, rimasero esposti tutto il giorno sulla pubblica piazza, finché, arrivata la notte, giunsero amici e congiunti per recuperarli e dargli degna sepoltura.
Di Mostiola e di Ireneo si occupò il Vescovo Marco con i suoi chierici.
Le loro salme furono portate fuori le mura della città, in un luogo dove altre volte erano stati seppelliti i cadaveri dei martiri delle precedenti persecuzioni”.
Dopo quaranta anni, Costantino il Grande dette pace alla Chiesa.

A Mustiola sono legate due leggende.
La prima una racconta che la giovane, in fuga dalle guardie romane, avrebbe attraversato miracolosamente il lago di Chiusi navigando sul suo mantello e lasciando una scia che pare si riveda all'alba della sua festa.
L'altra riguarda un anello di onice che la Santa avrebbe portato con sé da Roma; sarebbe l'anello nuziale di Giuseppe e Maria, ed è venerato a Perugia: lo si ritrova spesso come attributo nell'iconografia della Santa.
Esso era una reliquia che si conservava da tempo nella Città di Chiusi nella chiesa di S. Francesco e si riteneva che fosse servito allo sposalizio della Vergine Maria con San Giuseppe.
Il frate agostiniano Wintero nel 1449 rubò la reliquia custodita nel convento dei frati di Chiusi e la depositò in mano dei perugini.
Papa Sisto IV si intromise nella guerra distogliendo l'attenzione dei chiusini con il felice ritrovamento del Corpo di Santa Mustiola.
Giovanni da Filicaja signore del castello di Figline nei pressi di Montaione (1452), rinominato poi "Al Filicaja", Damaso Dei (i Della Dea in questo periodo vengono chiamati Dei) si adoperò
diplomaticamente per la restituzione del Santo Anello dalla città di Perugia a quella di Chiusi.
Fu il fratello di questi, Anton Felice Dei, Capitano Generale del Popolo di Chiusi, a muovere guerra a Perugia per il furto dell'Anello.
L'Anello rimase a Perugia dove è tuttora custodito all'interno della Cattedrale.
Il Culto
Le loro reliquie si trovano oggi nella cattedrale di Chiusi, in una tomba del '700, all’interno di un’urna. In altri tempi però, si trovavano in una tomba assai più antica, celata nell'oscurità delle Catacombe della città.
Alcune di esse, costruite in tempi romani e usate come sepoltura dai cristiani, sono intitolate proprio a Santa Mustiola, ed è qui che il suo corpo è stato conservato nei secoli, in una tomba che ancora si può vedere, con la sua epigrafe, più eloquente di qualsiasi leggenda.
La memoria di Santa Mustiola e Sant'Ireneo viene ricordata nel Martyrologium Romanum al 23 novembre, mentre viene celebrata a Chiusi il 3 luglio e compare per la prima volta nel martirologio di Usuardo. Mustiola è la patrona principale di Chiusi, dove in occasione della sua festa si corre il Palio delle Torri: ai vincitori spetta l'onore di difendere le spoglie della Santa fino all'anno successivo.
Note:
(1) Con l’approvazione delle autorità ecclesiastiche.
(2) Uno dei compilatori dell’Historia Augusta, autore delle vite di Valeriano, di Gallieno, dei “Trenta Tiranni (gli usurpatori del sec. III) e di Claudio II il Gotico.
(3) Ministro dell’impero d’Oriente
(4) Imperatore Romano. Uno dei tanti usurpatori avutisi nel periodo dell’anarchia militare del sec. III. Sconfitto da Gallieno e, successivamente, a Milano da Claudio il Gotico, fu ucciso dai suoi stessi soldati.
(5) Raccolta oracolare che i Romani conservavano nel tempio di Giove Capitolino. I libri erano affidati ad un collegio di pubblici sacerdoti formato da dieci membri, detti dal loro numero decemviri. Questi sacerdoti consultavano i libri sibillini, per richiesta del Senato o di un magistrato. Esaminati i quali, indicavano i riti che avrebbero dovuto eseguire allo scopo di placare gli dei in occasione di una qualunque calamità.
(6) I concili avvennero nel 264 e 268 contro Paolo di Somosata, che negava i misteri della Trinità e dell’incarnazione.
(7) Strumenti di legno in cui venivano stretti i piedi dei carcerati.
(8) Sutri è una cittadina dell’alto Lazio, in provincia di Viterbo. Un Tempo faceva parte del dominio etrusco, poi conquistata dai Romani. In quel tempo era quindi considerata geograficamente nell’Etruria.
(9) Antico strumento di tortura sul quale veniva steso il condannato per  essere poi tirato a forza in diverse direzioni.
(10) Papa, Santo (sec. III). Successore di San Felice, fu pontefice dal 275 al 283, Secondo il Liber Pontificalis, era etrusco di Luni. Il Martirologio romano ricorda la sua opera di seppellimento di 342 martiri. Subì a sua volta il martirio sotto Numeriano.
(Autore: Andrea Sartini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santa Mustiola e Sant'Ireneo, pregate per noi.

*San Severino di Parigi - Eremita (23 novembre)

Martirologio Romano: A Parigi nella Gallia lugdunense, ora in Francia, San Severino, che, chiuso in una cella, attese alla contemplazione di Dio.

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*San Sisinno (Sisinio) di Cizico - Vescovo e Martire (23 novembre)

Martirologio Romano: A Cizico in Ellesponto, nell’odierna Turchia, San Sisinio, vescovo e martire, che si tramanda sia stato dopo molti supplizi trafitto con la spada durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano.

Giaculatoria - San Sisinno di Cizico, pregate per noi.

*Santo Spes di Spoleto - Vescovo (23 novembre)

Sec. VI
Emblema: Bastone pastorale
I nomi delle tre Virtù teologali - Fede, Speranza e Carità - non sono desueti anche come nomi propri di Santi, o meglio di Sante. A Roma, il l° agosto, si ricordano tre Martiri chiamate proprio Fede, Speranza e Carità, nomi, chiaramente, più simbolici che reali, come lo conferma il fatto che le tre Martiri sarebbero state figlie di una Santa di nome Sofia, cioè, grecamente, "sapienza".
Fede si chiamò poi una Santa Martire di Agen, assai celebre nella devozione francese del Medioevo. E finalmente un Santo si chiamò Spes, che è il nome latino della Speranza, unico caso, ci sembra, in cui questo singolare nome maschile figuri nei calendari della Chiesa.
Eppure, secondo gli storici, questo nome fu portato anche da qualche altra persona, nei primi secoli cristiani, a Spoleto, in Umbria, da dove ci perviene il ricordo di Santo Spes.
Un ricordo, bisogna ammetterlo, alquanto vago, se si eccettua il nome, attestato con certezza, e l'epitaffio composto in onore del Santo, il cui testo ci è stato conservato.
Vescovo della bella città umbra, non sappiamo se Santo Spes provenisse da altre terre, o regioni; oppure, più probabilmente, fosse Spoletino anche di nascita, come lo confermerebbe il fatto, già ricordato, che a Spoleto il suo nome era, se non proprio comune, già noto e usato.
Egli resse il pastorale per trentadue anni, cioè per un periodo assai lungo, durante il quale non mancarono certamente, a Spoleto, fatti e misfatti legati alla travagliata storia del tempo.
Ciò servì sicuramente a mettere in risalto le doti e le virtù dell'esemplare pastore di anime, che dovette apparire, con luminosa evidenza, padre affettuoso del suo popolo, anche e soprattutto nei momenti di ristrettezze materiali e di difficoltà civili.
Morto nove giorni prima delle calende di dicembre - non sappiamo però di quale anno -il Vescovo Spes venne sepolto nell'antica chiesa di San Pietro, costruita a Spoleto da un suo predecessore, il Vescovo Achille, nell'anno 419, data che costituisce un limite prima del quale non è possibile collocare la vita, o almeno l'episcopato, di Santo Spes, appartenente dunque alle successive generazioni di quel secolo.
Un'appendice alla storia di Santo Spes di Spoleto è quella che riguarda le sue reliquie, portate in parte, non si sa quando né per quale ragione, in Francia, ad Aix-la-Chapelle. Ciò sembra dimostrare una certa latitudine del suo culto, che appare come un debito tributo al suo nome di speranza, virtù teologale che univa, e unisce, tutti i credenti nella sperata salute.
(Fonte: Archivio Parrocchia)

Giaculatoria - Santo Spes di Spoleto, pregate per noi.

*Beata Teresa di Gesù - Bambina, Mercedaria (23 novembre)
622 - 1627
La bambina Beata Teresa di Gesù, indossò l’abito dell’Ordine Mercedario all’età di 5 anni, nel convento di Nostra Signora di Betlemme a San Lucar in Spagna.
Dopo aver ricevuto il sacramento dell’Eucarestia che ardentemente aveva desiderato e aver consumato la sua tenera vita nella carità, come un giglio tagliato fu portata in cielo dagli Angeli a Gesù e Maria nell’anno 1627.
L’Ordine la festeggia il 23 novembre.
Giaculatoria - Beata Teresa di Gesù, pregate per noi.

*San Trudone - Sacerdote (23 novembre)

Hesbaye (Belgio), 628 ca. – 693
Martirologio Romano: Nel Brabante, nell’odierno Belgio nella cittadina in seguito insignita del suo nome, San Trudone, sacerdote, che donò i suoi beni alla Chiesa di Metz e costruì in questo luogo un monastero, in cui radunò molti discepoli.
Per un santo del Medioevo così lontano nel tempo, è stupefacente la vasta bibliografia esistente, e che ha come soggetto s. Trudone, sacerdote belga del VII secolo.
La stessa ‘Vita’ del santo ha avuto quattro edizioni, la prima verso la fine del secolo VIII, la seconda scritta verso il 1055, una terza nel 1085 ca., una quarta nel 1539 e pubblicata nel 1540.
La prima, fondamentale biografia (Vita) scritta verso l’ultimo quarto del secolo VIII, è del diacono della Chiesa di Metz, di nome Donato, forse originario dell’Hesbaye; l’opera fu scritta
dietro richiesta del vescovo di Metz Sant’Angelramo, morto nel 791. Il racconto, scritto con grande precisione e in un latino forbito, si rifà alla tradizione orale.
San Trudone (in francese Trond, Trudon) nacque nella regione di Hesbaye nel Belgio settentrionale, allora regno di Austrasia, verso il 628 ca.; i suoi genitori Wicboldo e Adele (la quale godeva localmente di fama di santità) erano ricchi e nobili, forse appartenevano ad un ramo dei Carolingi e trasmisero ai figli una salda educazione cristiana.
Scandalizzando i suoi amici di gioventù, Trudone avvertendo la vocazione religiosa, scelse la vita consacrata, abbandonando i piaceri della caccia e facendo voto di costruire un monastero.
Presa la decisione, un giorno si mise in viaggio per andare dal vescovo abate San Remaclo, che si trovava a Zepperen (Limbourg belga), il quale adottandolo come figlio spirituale, lo mandò poi da Clodulfo, vescovo di Metz, per ricevere un’istruzione nelle scienze religiose.
Questo fatto spiega, che le Scuole di Metz primeggiavano in quel tempo e solo successivamente le Scuole di Liegi, le facevano concorrenza; nel contempo spiega il perché della donazione da parte di Trudone, dell’abbazia costruita poi sulle sue terre, alla diocesi di Metz, i cui vescovi esercitarono la loro autorità fino all’anno 1227.
Il periodo della sua formazione avveniva dopo il 650, data della fondazione dell’abbazia di Stavelot-Malmedy di cui San Remaclo fu il primo abate e prima del 655, anno in cui Trudone fu ordinato sacerdote.
Una volta ritornato nell’Hesbaye, Trudone ebbe il permesso di predicare, di celebrare e di innalzare una chiesa nella sua proprietà di Sarchinium (dove sorse l’odierna città di Saint-Trond).
La costruzione della chiesa iniziò verso il 660-662 e fu dedicata ai Santi Quintino e Remigio (in seguito prenderà il nome di S. Trudone); alcuni chierici secolari andarono a condurvi vita
religiosa sotto la sua guida; Trudone passò qui il resto della sua vita, allontanandosi con frequenza per visitare le chiese vicine di Velm e Zepperen e a pregarvi di notte. E ad Hasbain (Hesbaye) morì nel 693.
La sua tomba divenne ben presto meta di pellegrinaggi, lo stesso Pipino il Giovane andò a pregarvi e fece alcune donazioni; poiché il monastero custodiva anche le spoglie di San Eucherio d’Orléans, morto in esilio, i due santi furono spesso associati.
Le loro reliquie furono elevate nell’880 (canonizzati, proclamati Santi) e traslate dalla chiesa nella cripta, ciò le salvò dal saccheggio dei Normanni dell’883.
Nei primi anni del XII secolo fu eretta una tomba degna del Santo e l’11 agosto 1169 fu eseguita un’ulteriore traslazione nel coro; dopo altri vari movimenti e realizzazione di magnifici reliquiari in onore del santo nei secoli successivi e dopo aver superato le distruzioni della Rivoluzione Francese, le reliquie nel 1806, furono poste sotto l’altare maggiore della chiesa primaziale di Saint-Trond.
Il culto per San Trudone si diffuse nelle Fiandre e nei Paesi Bassi, ancora oggi molte chiese parrocchiali lo venerano come patrono; nella Diocesi di Liegi e nel Martirologio Romano, la sua festa si celebra il 23 novembre.
(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

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*Altri Santi del giorno (23 novembre)
*San
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